Le costruzioni in Italia tra crisi e trasformazione

Daniele Girardi

(6 Giugno 2012)

 

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Il settore costruzioni italiano non sta attraversando soltanto una crisi da sovra-produzione, ma risulta a ben vedere investito da un vero e proprio cambiamento strutturale. I comparti "tradizionali", quelli che hanno trainato il settore fino ad oggi (nuova produzione residenziale in primis) sono destinati ad un ridimensionamento strutturale, mentre nuovi fattori propulsivi stanno emergendo, legati all'energy technology, alla riqualificazione del patrimonio esistente, alle innovazioni di prodotto, all'integrazione tra costruzioni e servizi. C'è la potenzialità per aprire un nuovo ciclo improntato ad una maggiore sostenibilità, ma che ciò accada davvero è tutt'altro che scontato.

 

LA CRISI

Il settore costruzioni italiano è in fase di recessione da ormai sei anni, e le prospettive per il prossimo biennio sono in continuo peggioramento. Sono venuti a mancare tutti i fattori che avevano trainato l’edilizia durante il boom dei primi anni Duemila: crescita demografica, disponibilità di credito, redditività dell’investimento immobiliare, spesa per opere pubbliche. Si aggiunga a questo il fatto che durante la fase di boom, come di consueto, si è costruito troppo, provocando una significativa crescita dell’invenduto. Tra 1997 e 2007 nel nostro paese sono stati realizzati 1,1 miliardi di metri cubi di nuova edilizia residenziale. Il numero di abitazioni invendute è passato dalle 40 mila di fine 2008 ad un numero compreso tra 250 e 300 mila a fine 2011 (stime CRESME).

Così, sono crollati quelli che erano stati i due motori dell’edilizia nel decennio tra il 1996 e il 2006: la costruzione di nuove abitazioni residenziali e la spesa per opere pubbliche. In questo contesto si è andata ad inserire la crisi finanziaria globale, che bloccando il flusso del credito ha trasformato il rallentamento dell’attività, iniziato nel 2006, in un crollo a picco di cui oggi non riusciamo a prevedere la fine.

LA RICONFIGURAZIONE DEL MERCATO

Se ci si ferma a questo quadro generale, però, non si capisce quello che realmente sta accadendo nel settore costruzioni italiano. Lo scenario generale di crisi, infatti, nasconde delle dinamiche molto differenziate tra settori, comparti, attori e territori. Tali dinamiche rivelano che il settore delle costruzioni stavolta non ha subito soltanto una contrazione, ma anche una vera e propria riconfigurazione, un cambiamento di struttura. Un nuovo ciclo, a ben vedere, è già iniziato ma i suoi fattori propulsivi non sono gli stessi di prima, e in parte sono cambiati anche gli attori in campo. I settori “tradizionali” (nuove abitazioni, sola esecuzione di opere pubbliche) sono destinati ad un ridimensionamento strutturale, mentre nuovi fattori propulsivi stanno emergendo, legati all’energy technology, alla riqualificazione del patrimonio esistente, al facility management pubblico, alle innovazioni di prodotto.

L’esempio più eclatante è quello degli impianti per le Fonti Energetiche Rinnovabili (FER). In Italia nel biennio 2010-11 c’è stato un vero e proprio boom del fotovoltaico (anche se non tutti sembrano essersene ancora accorti). Nel 2011 l’Italia è il paese che ha registrato la maggior crescita della capacità installata, diventando il secondo paese al mondo (dopo la Germania) per potenza totale installata. Secondo le stime preliminari realizzate dal CRESME, ciò ha comportato un investimento di oltre 60 miliardi di Euro nel biennio 2010-11. Nel nuovo assetto del settore costruzioni questo mercato, che pochi anni fa non esisteva nemmeno (e che ancora non è neanche contabilizzato nei dati ufficiali sulla produzione del settore), è già diventato più grande di tutta la nuova produzione edilizia residenziale (51 miliardi di Euro nello stesso biennio).

Poi c’è il motore della riqualificazione. Se il nostro paese vuole sopravvivere alla crisi energetica, non può non intervenire in modo importante sul patrimonio immobiliare, che oggi è un “colabrodo” dell’energia, responsabile di un terzo dei consumi complessivi del paese. In aggiunta – e non meno importante – è anche il problema del dissesto idro-geologico a rendere necessario un forte investimento nella riqualificazione del patrimonio edilizio. La vulnerabilità del nostro paese ad eventi sismici ed idrogeologici è elevata, e la quota di popolazione a rischio è molto alta. Per ora il settore della riqualificazione sta soffrendo la crisi, ma in misura minore rispetto alla nuova produzione edilizia. Molto, nei prossimi anni, dipenderà dalla capacità delle politiche pubbliche di creare un sistema di incentivi capace di accelerare il processo di riqualificazione. Si tratta di un’esigenza impellente, perché quelli che sono stati fino ad oggi i ritmi fisiologici di trasformazione del parco immobili non appaiono in alcun modo sufficienti a rispondere in maniera adeguata alle sfide poste dal cambiamento climatico, dall’esauribilità delle risorse, e dai costi (ambientali, finanziari e geopolitici) non più sostenibili delle fonti fossili.

Inoltre c’è da analizzare la partita degli appalti pubblici. Oggi il mercato della sola esecuzione sta sparendo. Lo Stato chiede alle imprese di progettare, costruire e gestire le opere pubbliche, spesso anche di co-finanziarle. La domanda pubblica si sta trasformando da domanda di lavori a domanda di servizi. Un esempio: la gestione dei patrimoni immobiliari delle Pubbliche Amministrazioni. Con le politiche di dismissione che si sono rivelate fallimentari, ci sarebbe ampio spazio per progettare dei programmi di gestione innovativa dei patrimoni pubblici, utilizzando gli strumenti gestionali più avanzati. Anche in questo caso, molto dipenderà dalla capacità, soprattutto del settore pubblico, di assumere un’ottica di medio-lungo periodo, e di utilizzare i cosiddetti nuovi mercati (Partenariato Pubblico Privato e Facility Management) non in un’ottica di privatizzazione e di taglio dei bilanci e dei servizi, ma in un’ottica di valorizzazione e razionalizzazione dei patrimoni e dei servizi pubblici, e di indirizzamento degli attori privati verso obiettivi di benessere collettivo.

LA TRASFORMAZIONE IN ATTO E QUELLA POSSIBILE: STAVOLTA È DIVERSO?

Se andiamo a rileggere articoli, relazioni e ricerche, ci accorgiamo che non è certo una novità che dopo una crisi da sovra-produzione si “gridi” da più parti alla trasformazione del settore in senso di una maggiore sostenibilità e al nuovo ruolo della riqualificazione. E’ già successo durante la crisi degli anni Settanta e dopo quella dei primi anni Ottanta. Alcuni cambiamenti sono effettivamente arrivati, ma solo per poi ritrovarci nei primi anni Duemila a commentare un boom delle costruzioni che, per i suoi caratteri prevalenti e per la mancanza di controllo sull’espansione, ricordava quasi quello degli anni Cinquanta. Forse stavolta potrebbe essere diverso, perché più radicale è il cambiamento di contesto che stiamo attraversando.

Il contesto, in effetti, è cambiato, anche solo rispetto a cinque anni fa. Da tutti i punti di vista: economico, finanziario, geopolitico, ecologico, energetico e sociale. Siamo in un nuovo mondo. Il settore costruzioni non può non essere interessato da questi cambiamenti. La crisi sta già imponendo una drastica ristrutturazione del settore. Con effetti drammatici soprattutto sui lavoratori e sulle medie e piccole imprese, come sempre accade nelle fasi di ristrutturazione. Ma la crisi è anche un’opportunità che, se interpretata bene dagli attori del settore, potrebbe portare il nuovo ciclo ad essere davvero più sostenibile.

Oggi non siamo più in una fase in cui la plusvalenza immobiliare è assicurata, indipendentemente da cosa e come si è costruito. Diventano molto più importanti la qualità e la rispondenza ai bisogni della domanda. In tal senso, la fase attuale, pur nella sua durezza e drammaticità, potrebbe realmente rappresentare un punto di svolta verso una configurazione più sostenibile del settore, non più incentrata su consumo di territorio e plusvalenze sulle aree. Resta da capire quanto gli attori del settore, pubblici e privati, dal lato della domanda e dal lato dell’offerta, siano disposti (e capaci) a cambiare dei modelli di comportamento piuttosto radicati, che li hanno serviti bene fino a ieri. Si tratta ad esempio di quelle modalità di interazione tra pubblico e privato, tipiche delle fasi espansive, incentrate sulle rendita fondiaria e sulla ripartizione di questa tra i costruttori/promotori immobiliari (spesso in Italia le due figure coincidono) e le amministrazione pubbliche. Modelli di comportamento che, a sei anni dalla fine della fase di espansione edilizia, non accennano a perdere la loro pervasività, se non in pochissimi casi, lodevoli ma legati a dimensioni territoriali molto ristrette. Come constatato da Keynes durante una crisi che per molti versi assomigliava a questa, “La difficoltà non è tanto nello sviluppo di nuove idee, ma nell’abbandono di quelle vecchie”.

(NOTA: questo articolo è stato pubblicato sul portale Edilbox il 6 giugno 2012)